Roma, la corsa e il silenzio: il rischio che parla

27 Ott 2025 - 18enni, Adolescenti, Giovani

Roma, la corsa e il silenzio: il rischio che parla

di Gabriele Pelosi e Stefania Capoferri.

C’è una notte di Roma che pesa sul cuore. Una ventenne, Beatrice, è morta in un’auto durante una corsa clandestina. Una di quelle sfide tra ragazzi che si accendono in pochi minuti, per gioco, per adrenalina, per sentirsi vivi.
Le indagini stanno ancora verificando se si sia trattato davvero di una gara clandestina o di un’altra dinamica, ma se così fosse, allora diventa ancora più più urgente e più necessario porci alcune domande…


Dietro la velocità, dietro il rombo dei motori e la sfida, resta il silenzio….Quello che segue ogni volta che la realtà si spezza e un sogno giovane si ferma.
Non possiamo, però, fermarci alla cronaca. Non possiamo ridurre tutto a irresponsabilità o pazzia. Dobbiamo provare a capire… Perché il rischio, oggi, parla. È un linguaggio. E come ogni linguaggio, chiede di essere ascoltato.

A quell’età il bisogno di misura, di limite, di sperimentazione, è inevitabile. È ciò che consente a un ragazzo o a una ragazza di lasciare l’infanzia e di cominciare a diventare se stessi.
Lo sappiamo bene, e lo ripetiamo spesso, oggi non vediamo nell’adolescente un ribelle senza scopo, ma una persona che cerca, con forza, un modo per abitare la vita.
Spesso, però, in questa ricerca, manchiamo noi adulti, e forse, non solo noi adulti…
Quando il gruppo di amici non è un luogo che accoglie e sostiene, ma solo un’arena in cui mostrarsi, allora il rischio prende il posto del legame.


Diventa una via per sentirsi vivi. Una sfida per capire chi si è. Un modo per “esserci” in un mondo che spesso non ascolta.
Il rischio, nella mente di molti giovani, non è solo distruzione. È tentativo di costruzione. È un modo estremo per dire: “voglio capire dove finisco io e dove inizia la vita”.
Ma quando questa esplorazione avviene in solitudine, senza adulti significativi, senza un gruppo che contenga e dia senso, diventa pericolosa.
La velocità, il rischio, l’adrenalina diventano sostituti affettivi. E la spinta vitale si trasforma in possibilità di morte.


Forse, allora, dobbiamo domandarci, come genitori, educatori, preti, psicologi, uomini e donne che vivono accanto ai ragazzi, che cosa oggi non stiamo offrendo?
Abbiamo riempito la loro vita di strumenti, di corsi, di regole, di abilità da mostrare ma forse abbiamo svuotato di legami il loro cammino.


Forse abbiamo dimenticato che un adolescente non ha bisogno solo di sicurezza, ma di qualcuno che lo aiuti a stare nel rischio in modo vitale, creativo, simbolico.
Accompagnare i giovani non significa proteggerli da ogni pericolo. Significa stare accanto quando si affacciano al limite.


Significa esserci mentre cercano se stessi.
Significa insegnare che si può vivere intensamente senza distruggersi, che l’adrenalina più forte è quella di sentirsi riconosciuti, accolti, visti davvero.
Questa tragedia ci interroga come mondo adulto…
Non per condannare, ma per cambiare.


Ci chiede di ripensare gli spazi che offriamo: luoghi di gruppo, di appartenenza, di incontro reale. Ci chiede di tornare a essere “casa”, non solo ambiente educativo o regolativo.
Ci chiede di guardare al rischio non solo come nemico, ma come domanda di relazione, come desiderio di vita che attende di essere accolto e accompagnato.


E, allora, nel silenzio che resta dopo una corsa interrotta, proviamo ad ascoltare.
Non solo il dolore, ma anche il messaggio.
Dietro ogni gesto estremo c’è un ragazzo o una ragazza che chiede senso, che cerca di capire chi è, che vuole sentirsi parte di qualcosa.
Se come adulti sapremo cambiare i nostri paradigmi e stare accanto a loro, con ascolto, fiducia e presenza, forse potremo evitare, nel nostro piccolo, che la vita diventi, per altri, una corsa verso il vuoto.


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