Chi aiuta le persone anziane dipendenti dal gioco d’azzardo

5 Mar 2023 - Adulti, Anziani

Chi aiuta le persone anziane dipendenti dal gioco d’azzardo

A cura di Alice Facchini – internazionale.it | “Alessandro: 7 e 3”. “Roberto: 7 e 2”. “Claudio: 14 e 3”. “Giulio: 7 e 3”. Uno a uno tutti si presentano, seduti in cerchio: dicono il proprio nome, il numero di giorni trascorsi dall’ultima volta che hanno partecipato all’incontro e un punteggio da 1 a 4 per valutare come si sentono. Poi aggiungono qualche frase sulla settimana passata: “Mi è arrivato lo stipendio e l’ho subito girato a mia madre, così non rischio di buttare via i soldi”. “Ieri ho litigato di nuovo con Angela, ma la discussione è stata meno violenta dell’ultima volta”. “Io ho festeggiato perché mia sorella mi ha prestato gli ultimi mille euro per chiudere il debito in banca”. Il clima è disteso, la sala è silenziosa e tutti stanno in ascolto: basta uno sguardo per far capire che non si ha più niente da aggiungere e passare la parola.

È un lunedì sera come tanti nel gruppo di auto-mutuo-aiuto per giocatori d’azzardo patologici alla Casa del giovane di Pavia, realtà che opera nel settore del disagio sociale e delle dipendenze. Ci sono ragazzi che hanno poco più di vent’anni e uomini che si avvicinano ai settanta. Ogni partecipante arriva insieme a un accompagnatore: chi con la moglie, chi con la figlia, chi con la madre o l’ex fidanzata. Sono loro che hanno il compito di aiutare il giocatore ad amministrare le finanze e a monitorare i progressi e le difficoltà nel percorso. All’incontro sono presenti anche un educatore e uno psicoterapeuta.

Percorsi di aiuto

“Da quando sono andato in pensione ho molto tempo libero e rischio di usarlo male”, racconta Giulio, informatico, 65 anni (il nome è di fantasia, come quello degli altri giocatori che compaiono in questo articolo). “Per questo ho cominciato un corso di russo e ho aiutato un amico ad aprire un’agenzia immobiliare. Da quando partecipo a questo gruppo ho avuto solo un paio di ricadute: ho buttato duemila euro alla volta, ma almeno non ho più mentito a mia moglie”.

Giulio ha giocato d’azzardo per trent’anni. Negli anni novanta ha aperto un’azienda che è arrivata ad avere più di cento dipendenti. “Una sera di apatia sono andato al casinò e ho fatto la mia prima vincita: è stato l’inizio della fine”, racconta. “Ho frequentato vari casinò in tutta Europa: viaggiavo per lavoro e buttavo trenta o quarantamila euro alla volta. Gli affari andavano bene e potevo permettermelo, finché non ho cominciato a fare debiti”.

Interviene sua moglie: “Chiedeva sempre soldi: solo in quel momento mi sono resa conto di cosa stava succedendo. Ho dovuto prendere in mano i conti e tenere i rapporti con le banche. Addirittura andavo io a parlare con gli strozzini: lui era completamente assente, c’era ma era come se non ci fosse. Avrei preferito che avesse un’amante, perché almeno avrei avuto qualcuno da affrontare: fronteggiare il gioco invece è difficile, perché dall’altra parte non c’è niente”.

Nei primi anni duemila, quando Giulio si stava allontanando dai casinò, sono arrivate le sale slot: “A me piacevano le videolottery, giocavo anche cinquemila euro alla volta”, dice. “I proprietari delle sale giochi mi facevano credito e mi prestavano anche migliaia di euro: avevano capito che il mese successivo avrei pagato”. Per smettere di giocare, Giulio è stato in terapia, ha frequentato diversi gruppi e ha sperimentato l’ipnosi, ma senza risultati. Fino a quando, un anno fa, non ha cominciato a frequentare la Casa del giovane: “So che potrei avere ricadute, ma almeno ora ho capito che il gioco è una malattia: la mia prospettiva è cambiata”.

Queste macchine sono costruite per attirare l’attenzione e creare dipendenza: non esistono mezze misure

La Casa del giovane è stata fondata a Pavia nel 1971 da don Enzo Boschetti, che accoglieva ragazzi con disagio e problemi di tossicodipendenza. Oggi è un complesso che mette insieme dieci strutture residenziali, cinque centri diurni, cinque laboratori di avvicinamento al lavoro e una serie di spazi aperti alla città. Subito dopo aver superato il cancello di ingresso, una mappa aiuta a non perdersi tra gli edifici e i giardini. “Qui le persone si liberano dalla dipendenza tornando a gustare i sapori della vita: riscoprono le loro passioni e così sviluppano autonomia”, spiega Simone Feder, direttore dell’area giovani e dipendenze della Casa, e cofondatore del movimento No Slot. Alle sue spalle, nel suo ufficio, campeggia una slot machine degli anni ottanta alta quasi due metri, con i colori sbiaditi e una manciata di gettoni abbandonati nella grande bocca d’acciaio. “Funziona ancora: è la prima cosa che guardano i giocatori quando arrivano qui per il primo colloquio”, racconta. “Queste macchine sono costruite per attirare l’attenzione e creare dipendenza: non esistono mezze misure. Ecco perché la retorica del gioco ‘responsabile’ è priva di senso”.

Alla Casa del giovane ci sono diversi percorsi per i giocatori patologici: quello ambulatoriale prevede sedute di psicoterapia abbinate agli incontri del gruppo di auto-mutuo-aiuto, oltre che un sostegno ai familiari e un supporto legale per sistemare la situazione finanziaria compromessa dal gioco. Poi c’è il percorso residenziale, con la possibilità di vivere per un periodo in una comunità di recupero. “È più complicato portare gli anziani in struttura, perché hanno abitudini radicate e fanno fatica ad adattarsi”, spiega Feder. “Qualche volta ci riusciamo e i risultati si vedono”. È la scelta che ha fatto Alessandro, che per molti anni ha lavorato per un’assicurazione e in banca. “Mi è sempre piaciuto scommettere in borsa, ma negli ultimi tempi la cosa mi è sfuggita di mano”, racconta. “Ho perso decine di migliaia di euro: mia moglie mi ha scoperto, e lì è successo il patatrac. Ho capito che dovevo chiedere aiuto: ho chiuso i conti correnti e sono entrato in comunità”.

Negli otto mesi di permanenza alla Casa, Alessandro ha frequentato il laboratorio di falegnameria. Da fuori può sembrare un capannone anonimo, ma dentro si nascondono scalpelli, seghe, martelli, vernici e pezzi di legno di ogni forma e dimensione. Qui lavorano una decina di persone che si trovano in comunità per ragioni diverse: tossicodipendenti, pazienti psichiatrici, senza dimora, minori stranieri non accompagnati. “Sistemiamo quello che si rompe nelle nostre strutture: sedie, finestre, porte, armadi”, spiega Luis, educatore che gestisce il laboratorio. “L’obiettivo non è diventare falegnami, ma ritrovare il proprio equilibrio”. È quello che ha fatto Alessandro, che oggi ha un lavoro e gestisce le sue finanze con l’aiuto di un amministratore di sostegno. “Dopo tanti anni di strategie, calcoli e numeri, avevo bisogno di tornare a usare le mani”, spiega. “Ho imparato ad apprezzare le cose semplici della vita e a non desiderare sempre di più”.

Un’abitudine consolidata

In Italia una persona su quattro di più di 65 anni ha giocato d’azzardo almeno una volta nella vita, e il 16 per cento lo fa con una frequenza almeno mensile. Sono i dati riportati dall’Osservatorio gioco d’azzardo 2021 di Nomisma: il gioco è un’abitudine consolidata da oltre dieci anni per sei giocatori su dieci, e il 12 per cento ha sviluppato un approccio problematico. Nel 2018 l’Istituto superiore di sanità (Iss) ha condotto un’indagine su un campione di più di dodicimila persone: è emerso che gli anziani giocano più frequentemente al gratta e vinci, ma sviluppano dipendenze in particolare con le slot machine, le videolottery e le scommesse sportive. Spesso per giocare si recano in luoghi fisici come il bar, la tabaccheria o il casinò, che diventano per loro anche spazi di aggregazione, mentre è più difficile che diventino dipendenti dai giochi online, anche per la scarsa conoscenza degli strumenti digitali.

In termini quantitativi, il 3 per cento della popolazione italiana ha un approccio problematico al gioco, per un totale di più di un milione e mezzo di persone: considerando solo la fascia dai 65 ai 79 anni, la percentuale scende al 2,3 per cento, e arriva allo 0,4 per cento negli ultraottantenni. “Questi numeri vanno interpretati con cautela”, spiega Claudia Mortali, ricercatrice dell’Iss che si è occupata dello studio. “È vero che ci sono meno anziani che giocano, ma quelli che lo fanno perdono più soldi e presentano anche altre fragilità: economiche, sanitarie, psichiche, sociali, relazionali. Pensiamo agli anziani affetti da morbo di Parkinson, che assumono farmaci dopaminergici: tra gli effetti collaterali c’è la disinibizione degli impulsi, che fa sì che alcuni sviluppino una dipendenza da gioco proprio quando cominciano la terapia”.

LABORATORI PER ADOLESCENTI E GIOVANI

Una ricerca dell’Ordine degli assistenti sociali della Lombardia annovera, tra i fattori di rischio per il gioco d’azzardo, l’isolamento sociale. “Anche la solitudine aumenta le probabilità di cadere nella dipendenza”, afferma Beatrice Longoni, che ha coordinato l’indagine. “Ci sono alcuni campanelli d’allarme: c’è chi smette di prendersi cura di sé, chi sparisce per lunghi periodi, chi ha gravi dimenticanze. Ma quando si è soli, non c’è nessuno che se ne renda conto. Alcuni anziani si rivolgono ai servizi sociali per chiedere un aiuto economico, ma i soldi finiscono in fretta: in alcuni casi, gli assistenti sociali si accorgono che rinunciano alle visite mediche per non dover pagare il ticket, o che in casa spariscono gli oggetti di valore”. Alcuni percepiscono solo la pensione minima, o vivono nelle case popolari. A volte, sono le stesse misure di sostegno al reddito a costituire un flusso di denaro, per quanto minimo, che continua a essere usato per il gioco.

“Giocare mi è sempre piaciuto, ma non ero mai stata compulsiva”, racconta Carmela, 76 anni. “Il vizio è cominciato quando avevo sessant’anni, dopo un intervento andato male che mi ha lasciato parzialmente paralizzata: è stato allora che ho scoperto queste maledette macchinette. Andavo a giocare da tutte le parti, prima vicino casa, poi in altri quartieri, per non farmi vedere”. Da giovane Carmela lavorava come parrucchiera e oggi ha la pensione minima, più una pensione di invalidità. Nelle slot machine ha speso tutti i risparmi di famiglia, poi ha chiesto un finanziamento di ventimila euro a un’azienda di credito. “Per avere altri soldi ho portato i miei gioielli al monte dei pegni, pensando poi di riscattarli, ma non ci sono più riuscita. Mi sono giocata anche la collana di perle che mi aveva regalato mio marito quando ero rimasta incinta”.

Dieci anni fa Carmela ha capito di avere un problema ed è entrata in un gruppo di auto-mutuo-aiuto dell’associazione Giocatori anonimi. Dopo qualche tempo è stata nominata tesoriera, gestiva la cassa. Fino a quando non ha avuto una ricaduta: “Non so cosa mi sia scattato quella mattina, fatto sta che mi sono giocata tutti i soldi del gruppo. Provavo una grande vergogna, ma ho comunque deciso di raccontare la verità. Ho restituito la somma e oggi frequento ancora gli incontri: so che, se dovessi giocare anche solo due euro, tornerei nella dipendenza”.

Il pensionamento è un passaggio critico. Si gioca di più quando le responsabilità familiari si allentano

Attraverso il gioco d’azzardo molti anziani tentano di colmare un vuoto: con l’età aumentano ansia e depressione, e quella diventa una via di fuga che dà l’emozione di un’improbabile vincita. In Italia una persona su dieci di più di 65 anni soffre di sintomi depressivi: il problema è più frequente con l’avanzare dell’età (si arriva al 17 per cento dopo gli 85 anni), nella popolazione femminile (14 per cento contro il 7 per cento negli uomini), tra chi ha difficoltà economiche (34 per cento), chi ha una diagnosi di patologia cronica (18 per cento) o chi vive solo (14 per cento).

L’indagine L’azzardo non è un gioco, condotta dal Gruppo Abele insieme ad Auser su più di 800 anziani in tutto il territorio nazionale, mostra che si gioca di più quando le responsabilità familiari si allentano, i figli sono ormai indipendenti e la persona avverte la necessità di uscire di casa e socializzare. “Il pensionamento è un passaggio critico: l’anziano si trova con tanto tempo e denaro a disposizione”, spiega Antonella Lazzari di Auser Bologna, che ha coordinato il progetto “Liberi da un gioco”.

“I giocatori mentono costantemente per nascondere la dipendenza: spesso i parenti se ne accorgono solo quando ormai la situazione è critica. Ecco perché dobbiamo lavorare in un’ottica di prevenzione, dando informazioni e facendo conoscere i servizi a supporto di chi ha una dipendenza e delle loro famiglie”. All’interno del progetto “Liberi da un gioco”, nel 2021 sono stati organizzati nove incontri online, seguiti nel 2022 da cinque eventi in presenza. Ma l’affluenza è stata bassa: “Coinvolgere gli anziani è difficile: ecco perché è importante continuare a fare sensibilizzazione, trovando modalità leggere per avvicinare le persone senza spaventarle”.

Il volume dell’industria

Gli ultimi dati forniti dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli mostrano che, nel 2021, il volume di denaro giocato in Italia è pari a 111 miliardi di euro, un valore tornato ai livelli prepandemia – erano 110 i miliardi di euro giocati nel 2019 – ma con una ripartizione diversa: si è infatti registrato il sorpasso del gioco online rispetto a quello fisico. A guadagnare sono esercenti ma soprattutto lo stato, che tassa il gioco legale. Sull’online, però, le entrate sono inferiori rispetto al gioco fisico: nel 2021 sono stati incassati più di otto miliardi di euro di gettito fiscale, a fronte di più di 11 miliardi nel 2019. Allo stesso tempo, ci sono le spese di welfare per il recupero dei giocatori patologici: la ricerca I costi sociali del gioco d’azzardo problematico in Italia, realizzata da Federserd, Cerco e Milano Bicocca, stima che ogni anno i costi sanitari superano i 60 milioni di euro, a cui si aggiungono i costi della disoccupazione e della mancata produttività (circa 1,5 miliardi di euro), i costi delle rotture familiari e dei suicidi (311 milioni di euro) e i costi legati ai problemi legali (813 milioni di euro).

La maggior parte degli introiti, però, arriva dal gioco illegale: Federico Cafiero de Raho, già procuratore nazionale antimafia, ha parlato di guadagni pari a circa 20 miliardi ogni anno. Soldi che entrano nelle casse della criminalità organizzata: nella relazione al parlamento della Direzione investigativa antimafia si legge che c’è un interesse mafioso “verso la gestione del gioco illegale, un settore che negli ultimi decenni ha avuto un notevole sviluppo”. Tra le attività in mano alle mafie c’è la gestione di sale gioco e scommesse, e di bar o tabaccherie con le slot machines, adatte a diverse forme di riciclaggio.

“Dagli anni novanta non solo il volume di gioco è aumentato, ma è cambiata anche la qualità”, spiega Mauro Croce, professore di psicologia delle dipendenze all’università della Val d’Aosta e coautore, insieme a Fabrizio Arrigoni, di Gratta e Perdi – Anziani, fragilità, gioco d’azzardo. “I giochi prima erano lenti, pensiamo alla tombola, e ora sono diventati velocissimi, vedi il bingo. Prima c’erano dei momenti di sospensione, ora è possibile giocare 24 ore su 24. Prima era la persona a cercare il gioco, ora è il gioco a trovare la persona, con le macchinette e i gratta e vinci a disposizione nei bar e nelle tabaccherie. Siamo passati dal manuale al tecnologico, dalla ritualità al consumo, dalla socialità – giocare a carte insieme – alla solitudine – un soggetto contro una macchina. Si è persa la radice culturale del gioco, che si è macdonalizzato: le slot machine sono le stesse da Forlì a Buenos Aires. Ma soprattutto, prima non c’era la riscossione immediata, ora invece il gioco ti dà subito il denaro: questo innesca un circuito di compulsione. I giochi di oggi sono costruiti per essere ad alta additività”.

Un fenomeno sommerso

Dal 2012, con il decreto Balduzzi, la dipendenza dal gioco d’azzardo è stata riconosciuta come una patologia in carico al servizio sanitario nazionale, e oggi è inserita tra le dipendenze trattate dai Livelli essenziali di assistenza (Lea). Nel 2016, poi, è stato istituito il Fondo statale per il gioco d’azzardo patologico, del valore di 50 milioni di euro l’anno, ripartito tra le regioni e le province autonome per realizzare attività di prevenzione, cura e riabilitazione. Nel 2019 è nato anche un Osservatorio presso il ministero della salute, e l’Iss ha attivato il Telefono verde nazionale e la piattaforma Uscire dal gioco.

Quello che ancora manca però sono programmi di recupero modellati sull’età dei partecipanti: “Per gli anziani dipendenti servirebbero azioni ad hoc per contrastare la solitudine e l’isolamento”, commenta Beatrice Longoni. “Oggi un anziano raramente si rivolge al Serdp (il servizio per le dipendenze, ndr), perché associa quel luogo alle droghe pesanti e a situazioni di grave emarginazione in cui non si riconosce”. Per cogliere precocemente i segnali della dipendenza, sarebbe poi necessario attivare una rete territoriale composta da associazioni, medici di base, case della salute, patronati e servizi sociali. “Il panorama è diverso da regione a regione: spesso i servizi per le dipendenze non dialogano con quelli per gli anziani non autosufficienti, né con quelli per la salute mentale”, spiega Claudia Mortali dell’Iss. “Bisogna potenziare lo scambio tra diversi settori e professionisti, per andare verso una presa in carico integrata”.

Alla base, comunque, manca una conoscenza esaustiva del fenomeno, perché non ci sono sufficienti ricerche che forniscano dati aggiornati: “Il gioco d’azzardo negli anziani è ancora poco studiato, e le indagini sono spesso orientate all’interesse di chi le commissiona”, afferma Roberto Pozzoli, presidente dell’associazione Vinciamo il gioco. “Il fenomeno rimane sommerso: spesso gli anziani non ammettono di avere un problema, o perché non se ne rendono conto, o perché si vergognano: lo stigma è forte, il giocatore non è visto come una vittima ma come uno stupido che butta via i soldi”.

In Italia i fondi europei non hanno un grande impatto per il contrasto della dipendenza da gioco negli anziani

Inoltre, le indagini effettuate finora stabiliscono differenti soglie d’età per circoscrivere la categoria di “anziani”: in alcuni casi si considerano gli over 65, in altri casi gli over 60, mentre alcune ricerche allargano lo spettro fino agli over 50. Questo non permette di comparare i risultati. “La difficoltà è anche quella di raggiungere queste persone: spesso gli anziani non riescono a rispondere autonomamente a un questionario online perché non sanno navigare su internet”, osserva Claudia Mortali. “Alcuni hanno problemi di udito ed è difficile anche intervistarli al telefono. La modalità di indagine più efficace allora è il porta a porta, ma si tratta di un metodo dispendioso in termini di tempo e risorse”.

Nel 2020 ha preso il via un nuovo progetto di ricerca portato avanti dall’università della Campania Luigi Vanvitelli, con l’obiettivo di studiare i fattori di rischio negli anziani, raccogliere dati aggiornati e mettere a punto proposte su prevenzione e intervento.“Il tema è sempre più urgente”, spiega la professoressa Giovanna Nigro, referente del progetto. “Con il progressivo invecchiamento della popolazione e la crescente diffusione del gioco d’azzardo, la dipendenza negli anziani sta diventando un importante problema di salute pubblica”. Il progetto è stato finanziato con 187mila euro dal ministero dell’università e della ricerca, all’interno del Programma operativo complementare ricerca e innovazione 2014-2020: si tratta di un cofinanziamento statale per integrare gli interventi promossi dalla politica di coesione dell’Unione europea.

Un primo studio effettuato su 370 giocatori mostra che, con il passare degli anni, il coinvolgimento nel gioco e le distorsioni cognitive associate al gambling aumentano, mentre non diminuisce la propensione al rischio. “Con distorsioni cognitive indichiamo una serie di modalità disfunzionali di ragionamento, per cui una persona ritiene di poter influenzare con il proprio comportamento gli esiti del gioco: pensiamo a chi tira il dado più forte per ottenere un numero più alto”, spiega la ricercatrice Maria Ciccarelli, che ha lavorato allo studio. “Queste distorsioni aumentano con l’avanzare dell’età: non è vero che con il passare degli anni le persone tendono a giocare di meno, anzi”. Oggi il gruppo di ricerca dell’università Vanvitelli sta realizzando nuovi studi che prendono in considerazione le capacità decisionali dei giocatori, il chasing, ossia l’attitudine a rincorrere le perdite, e i bias attentivi, in particolare la velocità con cui si intercettano gli stimoli di gioco.

In Italia, i fondi europei non hanno un grande impatto per il contrasto della dipendenza da gioco negli anziani. Il Pnrr non si occupa del tema: nelle missioni 5 e 6 prevede interventi e investimenti per gli anziani, ma si concentra sulla non autosufficienza. Anche i fondi legati alla politica di coesione (il Fondo europeo di sviluppo regionale e il Fondo sociale europeo) molto raramente finanziano progetti per supportare i giocatori patologici, e in nessun caso si rivolgono specificamente agli anziani. Il tema, comunque, è molto specifico e per questo non è annoverato tra le linee di intervento della politica di coesione europea, che ha l’obiettivo generale di ridurre le differenze tra i territori e contrastare le disuguaglianze.

Secondo i dati del portale OpenCoesione aggiornati al 31 agosto 2022, in Italia ci sono stati solo due progetti di contrasto del gioco d’azzardo sostenuti da questi fondi nel periodo 2014-2020: un corso di gestione economica per prevenire la dipendenza da gioco, organizzato da una cooperativa sociale in provincia di Udine e finanziato con quattromila euro, e un centro diurno e residenziale per giocatori patologici a Bella, un piccolo paese nell’Appennino lucano, che ha ricevuto 339mila euro. Facendo una verifica, però, risulta che il centro non sia ancora attivo e il sindaco non ha voluto dare informazioni al riguardo. I soldi della politica di coesione, insomma, sembrano non avere un impatto positivo nell’affrontare questo problema: “I progetti che vengono realizzati in Italia sono quasi tutti finanziati dal Fondo statale per il gioco d’azzardo patologico, che è piuttosto cospicuo”, spiega Pozzoli. “Il problema è piuttosto che queste risorse non sempre vengono usate in modo efficace, o in alcuni casi non vengono usate proprio”.

“In Italia esiste una cultura del gioco d’azzardo che non siamo ancora riusciti a scalfire”, conclude Beatrice Longoni. “Ogni giorno ci troviamo a contatto con situazioni potenzialmente rischiose: in tabaccheria, al bar, nel centro anziani. Sembrano occasioni di gioco innocue, ma non è così: la dipendenza si costruisce poco a poco, giorno dopo giorno. Fino a quando il gioco d’azzardo non sarà percepito come un problema reale, non ci si attiverà davvero per contrastarlo”.

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